Clip è una microgalleria di 4x3,5 metri, una vetrina collocata all’ingresso del liceo.

È uno spazio minimo e concentrato dedicato a piccole mostre, anche di un'opera sola e a progetti particolari site-specific.


Giuseppe Sommaruga

Tavole inedite

a cura di Alberto Bertoni

 

Marzo- Aprile 2024

 

 

L'architetto Giuseppe Sommaruga è un protagonista indiscusso del Liberty e figura di rilevanza internazionale. 

In mostra tavole inedite riprodotte all’interno di un volume recentemente pubblicato da Macchione Editore. Le tavole esposte costituiscono una piccola ma significativa testimonianza di quanto ritrovato molti anni or sono da Gabriele Scazzosi presso l’Archivio della Ditta De Grandi di Varese. Comprendono progetti relativi al Palace Grand Hotel di Masnago e ad alcune delle stazioni della tramvia che da Varese portava a Ghirla e quindi a Lavena Ponte Tresa. Le prime sono databili 1911-12, mentre le altre tra il 1912 e la prima metà del 1913. 

Il volume è stato realizzato con la curatela di Alberto Bertoni e contiene saggi e schede di altri studiosi Vincenzo Capodiferro, Valerio Parola, Renata Castelli, Angelo Del Corso, Michela Barzi, Pierfrancesco Sacerdoti, Piero Mondini. È completato da un ricco apparato fotografico di Marco Introini. La grafica è a cura di Rosalia Azzarello.

Il volume traccia un’ampia panoramica circa il rapporto che Sommaruga ebbe con la committenza varesina finalizzato, in particolare, alla progettazione di assoluti capolavori del Liberty come il Palace Grand Hotel e il Grand Hotel Campo dei Fiori, contribuendo a rendere Varese una raffinata località turistica all'inizio del '900. Il progetto, però, era più ambizioso: trasformare una parte della ridente cittadina in una villen kolonie, un’area dotata di ville, parchi, lussuosi alberghi collegati alla città mediante eleganti stazioni delle funicolari, nonché da una grande quantità di linee tramviarie delle quali progettò tutte le stazioni di quella diretta da Varese a Lavena Ponte Tresa. Sommaruga ha così contribuito a cambiare l’assetto urbanistico del territorio varesino, e le tracce di questo grande progetto sono assai vive e presenti, per quanto attendano da tempo importanti interventi conservativi. 

 

 


Fabio Mauri

Manipolazione di cultura

 

 

 

Gennaio - Febbraio 2024

 

In concomitanza con la Giornata della Memoria 2024, lo spazio CLIP del Liceo Artistico Angelo Frattini di Varese presenta una versione completa dell’opera “Manipolazione di cultura” di Fabio Mauri.  L’opera di importante valore storico e artistico, è stata realizzata tra il 1971 e il 1973 e poi edita in versione di libro nel 1976.

La cartella in mostra, con tiratura in 125 copie, è composta da 15 stampe fotografiche con interventi personalizzati. Le tavole sono divise in tre parti: immagini tratte da fotografie originali in cui si ritraggono scene reali di accadimenti riferiti a nazisti e fascisti; una zona monocroma nera che censura una parte dell’immagine; una didascalia descrittiva dell’azione svolta, in italiano e tedesco. Come in altre opere dello stesso periodo, la ricerca di Fabio Mauri, si concentra sull’analisi e comprensione del problema dell’ideologia, quindi dei valori orientativi e programmatici che determinano un gruppo sociale, un sistema di idee specifico con il valore di dottrina e le sue ricadute sul sociale. Senza commenti personali sulle immagini, ma soltanto descrivendo l’azione dell’immagine, l’artista obbliga il fruitore a prendere consapevolezza dei fatti successi, facendo inoltre notare come fosse incontestabile la convinzione di queste persone nel sostenere le loro azioni. Di conseguenza è ancora più “visivamente leggibile” percepire la potenza manipolatoria delle immagini e la loro capacità di saper influenzare masse e culture.

La zona nera, che potrebbe essere il commento etico di Mauri, funge quasi da censura su una parte dell’immagine, come uno schermo nero, omogeneizza idealmente il male facendolo diventare definitivamente oscuro. Un’oscurità che non ha sempre la stessa forma, a volte è più grande, a volte più piccola ma solo visivamente; un’oscurità che diventa ritmo, che si fa notare e in qualche modo ci allerta. Il suo lavoro si è caratterizzato anche come un’opposizione intellettuale alle problematiche del fascismo e del nazismo, attraverso una sua rappresentazione quasi teatrale, mediatica, per interrogarsi sulla capacità della cultura di fare i conti con il male assoluto, ad esempio con l’inferno reale di Auschwitz. Il filosofo Adorno scrisse se era ancora possibile la poesia dopo Auschwitz… Mauri propone, attraverso un linguaggio sensibile, con il linguaggio dell’arte, una riflessione attorno ai totalitarismi del novecento, al potere invasivo, contro l’anestesia morale e l’oblio, contro il perseverare del male. La storia non si dimentica, e non si deve dimenticare. 

A cura di Claudia Canavesi

 

 

 

FABIO MAURI. Artista e scrittore italiano (Roma 1926 - ivi 2009).  È considerato uno degli artisti italiani più importanti del dopoguerra. Ha affrontato con modalità espressive diverse (dalla scrittura alla pittura, dall'installazione alla performance) tematiche legate in particolare alla comunicazione e ai modelli comportamentali, analizzandone i risvolti politici, sociologici e ideologici. Ha fondato la rivista Il setaccio (1942) con Pier Paolo Pasolini, con il quale ha collaborato anche alla rivista Officina (1959). Gli anni giovanili, segnati dalle vicende della guerra e del fascismo, sono vissuti anche attraverso crisi psichiche, esperienze religiose e un intenso impegno sociale. Nel corso degli anni 1944-74 ha lavorato presso l'editore Bompiani, dirigendo dal 1958 la sede di Roma. È stato tra i fondatori della rivista Quindici (1967), con Umberto Eco, Edoardo Sanguineti. Gli sono state dedicate mostre in importanti gallerie private e musei. Si ricorda la sua presenza a più edizioni della Biennale di Venezia e nella rassegna Documenta a Kassel.

 

https://www.fabiomauri.com/

 

Il Liceo ringrazia Fermo Stucchi dello Spazio Danseei di Olgiate Olona per la collaborazione e la gentile concessione della cartella.


Olinsky

 

 

Maggio - Settembre 2023

 

 

Poco importa se Olinsky esista, quanti anni abbia, dove viva, dove ha vissuto. Quello che a noi interessa è la sua arte. La sua assoluta capacità nell’attualizzare il gesto pittorico, di rinnovarlo in ogni quadro. Quello che rende Olinsky unico è questa sua capacità di rivedere il racconto artistico attraverso una riflessione divertita e divertente del mondo dell’arte.  

Lo spazio di CLIP ospita l’opera di Olinsky  L’ultimo ponte, un ovale di 160X110 cm, un classico dipinto realizzato ad olio su tela. L’ultimo ponte verso l’ignoto? L’ultimo ponte verso il ritorno a casa? L’ultimo ponte che attraversa il tempo?

L’arte dei maestri, da sempre guardata da Olinsky con ammirazione, inizia a contaminarsi con la presenta di Topolino (il celebre Topolino è il soggetto privilegiato delle sue narrazioni fantastiche e surreali ambientate in paesaggio arcaici o metafisici). Il maestro Olinsky passa dal fumetto all’arte alta con disinvoltura, con il “topastro”  come suo Virgilio, un omaggio estremo ad un eroe immaginifico e un gesto d’amore per un plagio tutto emozionale. Olinsky dipinge storie di topolini indaffarati ambientati in bellissimi e morbidi paesaggi, storie per immagini, rarefatte e semplici, e nello stesso tempo pregnanti e dirette, senza rispettare confini di spazio né di tempo. Lui si trova a suo agio in ogni epoca, in ogni movimento e li attraversa divertito.  È il topo ficcanaso, onnipresente, divertente, ironico, simbolico ad essere il protagonista invadente del  tempo e dello spazio artistico. Ciò che si legge con gli occhi, ciò che si sedimenta, ha bisogno della mano e dell’intelligenza del pittore per divenire manufatto artistico dove il topo è filo conduttore di un percorso che Olinsky compie con leggiadra leggerezza negli ambiti dell’arte attraverso la memoria.  Una pittura eclettica la sua, praticata come attraversamento dei generi, contraddistinta da uno stile e da un atteggiamento distaccato, con un linguaggio che rende la pittura stessa ultratemporale, un po’ stravagante e irreale, e pop quanto basta. Il gioco di realtà e finzione fa assumere ai sui soggetti una decisa carica ironica, la messa in scena delle storie testimonia una precisa scelta d’ordine psicologico di indagine della storia dell’arte, perché Olinsky ha sempre molte cose da raccontarci. 

Oggi conosciamo il suo lavoro attraverso l’operatività filologica critico-autoriflessiva di Paolo Sandano, depositario dell’oggetto sociologico Olinsky e dell’intera opera olinskiana, suo attento biografo e mentore, instancabile divulgatore della sua opera e pittore lui stesso. Il Professor Paolo Sandano inoltre cura da anni l’Archivio dell’artista.

Luca Scarabelli

 

 

 

Le prime testimonianze su Olinsky, misterioso pittore di origini slave, risalgono alla fine del XIX secolo. È nato il 28 marzo 1886 a Slavateck nella Slavonia Occidentale. Dal 1995 ad oggi il suo lavoro inizia ad avere successo tra i collezionisti d’Europa ma negli anni Olinsky si ritira in totale isolamento (dal 1923 al 1943 ha una profonda crisi religiosa e per circa 20 anni resterà inattivo all’interno del Convento Francescano di Valladoid riuscendo così a non essere coinvolto nel conflitto mondiale.) Nel 1946 acquista alla Gare de Lyon un numero di Topolino e ne rimane folgorato. Rinnega tutta la sua arte precedente e da allora considera Walt Disney l’unico grande artista del XX secolo. 

 


 

Scultura lignea Nimba

Etnia: Baga 

 

Aprile - Maggio 2023

 

 

Lo spazio espositivo Clip ospita due sculture dell’etnia BAGA del Museo Castiglioni.

Il Museo Castiglioni nasce grazie alla donazione, alla città di Varese, di migliaia di preziosi reperti da parte dei fratelli Alfredo e Angelo Castiglioni che, per 60 anni, hanno condotto missioni di ricerca e documentazione etnologica e archeologica soprattutto in Africa. Durante le loro spedizioni nei deserti, nelle savane, nelle foreste e sui monti africani, i gemelli Castiglioni hanno raccolto e catalogato oggetti della vita materiale e religiosa dei vari gruppi etnici, e hanno anche realizzato precise e numerose documentazioni foto-cinematografiche, documenti ormai irripetibili che fanno parte del patrimonio museale e che permettono ai visitatori di “immergersi” in uno mondo lontano e ormai scomparso.

Il Museo Castiglioni si trova nella dépendance del meraviglioso Parco di Villa Toeplitz a Varese.

Immagine dell’antenato tutelare dei villaggi Baga, la statua viene collocata ai crocicchi o in una capanna nascosta sotto i grandi alberi della foresta.  Tipica è la testa con la spiccata gibbosità del naso e le braccia scolpite a sostenere il peso del capo. Nella testa risiede la conoscenza, l’essenza profonda degli esseri viventi. La statua Nimba è in rapporto anche con la fecondità, difatti i grandi seni allungati alludono all’allattamento che nutre le nuove esistenze.  Sono stilemi classici, come la testa allungata e di proporzione esagerate, o il naso a becco di rapace. In questo caso sulla superficie della scultura si possono ancora intravedere i resti di polenta di sorgo, usata durante i riti delle offerte propiziatorie, letteralmente sputata sulle sculture in segno di offerta. Recuperate negli anni ‘60 del secolo scorso, artefatti come questi sono rari e preziosi, e godono di particolare attenzione da parte di tutti i collezionisti del mondo.

Manufatti scultorei come questi hanno affascinato e ispirato con le loro forme anche grandi artisti dell’arte moderna occidentale come Pablo Picasso, Amedeo Modigliani, André Derain, Henry Moore, Fernand Leger, Paul Gauguin.

 

BAGA 

Area geografica: Guinea Bissau

Popolazione: circa 45.000 persone

Popolo di agricoltori e pescatori, composto di piccole comunità risicole che vivono lungo la costa della Guinea, in Africa occidentale, gli artisti Baga hanno creato alcune tra le opere più incredibili di tutto il continente africano come la figura “A-tshol”, il dio uccello di scattante severità lineare e fortemente stilizzato, o la monumentale maschera da spalla Nimba o ancora  i copricapo zooomorfi “A-mantsho-nga” a forma di serpente, che possono raggiungere anche i 2,5 m di altezza.

 


 

Cristina Enrica Cipolla    

Otium    

 

Marzo 2023

A cura di Vincenzo Capodiferro

 

Partendo da Il Bagno Turco di Jean-Auguste-Dominique Ingres (1780 - 1867). Tondo 108 x 108 cm. olio su tela, Museo del Louvre, Parigi, Cristina Cipolla ci propone un percorso artistico-culturale celebrativo del più antico vizio, ma in questo caso virtù, del mondo: l’ozio. Anticamente veniva chiamato l’ozio letterario ed indica l’atteggiamento contemplativo dell’uomo originario, stupito ancora dalle meraviglie della Natura, la Φύσις, da Physein, il Divenire cosmico, il πάντα ῥεῖ (Panta rei) di Eraclito. Il pluralia neutro indica la totalità degli essenti. Da qui l’atteggiamento della figura femminile che viene proposta in varie pose, o modalità: la Φύσις era detta μήτηρ, madre, da cui la raffigurazione profondamente femminile della Cipolla, ma per Omero era anche πατήρ, padre, una figura androgina primordiale. Rispecchia questo senso profondo dell’essere: ogni stato dell’essere deriva dal suo divenire, o cambiamento. Come diceva Fichte: esse sequitur operari, e non viceversa.

È un ozio, quindi movimentato, irrequieto. È un susseguirsi di stati dell’essere, ma calmo, pacifico, rilassante. L’arte coglie gli stati dell’essere, è imitazione, o platonicamente mimesi della Natura Madre, l’omerica Madre del tutto. Aristotele scriveva: Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia (Metafisica, A, 2, 982b). Questo stupore originario dinanzi alle Idee-dee rende stupìti/stupidi. Ecco l’origine dell’ozio originario. Non è una cosa da nulla. Anche la stessa scuola era il luogo dell’ozio (σχολή), dove si potessero coltivare le discipline teoretiche. θεωρία, infatti, significa contemplazione ed ha la stessa radice di vedere, di giorno, di luce. La scuola dovrebbe tornare a questo senso originario. Il messaggio è allora molto bello e chiaro: un susseguirsi di pose da yoga, per celebrare l’ozio, la tranquillità contemplativa, quella virtù suprema degli alessandrini (epicurei, stoici, cinici, scettici): l’atarassia.

Oggi più che mai ce n’è bisogno, in un mondo di corsa, di fretta, di attivismo sfrenato, conseguenza parossistica dell’homo faber rinascimentale, che si è sostituito all’uomo contemplativo antico-medievale. È la celebrazione della bucolica, virgiliana rassegnazione:

 

Tytire, tu patulae recubans sub tegmine fagi

silvestrem tenui musam meditaris avena…

o Meliboee, deus nobis otia fecit.

 

 

Dio ci ha dotato dell’ozio primordiale, quello edenico, quando la terra produceva tutto da sola, senza fatica. L’attivismo è frutto del peccato umano, della ybris, della superbia. Il lavoro diventa colpa, produce miseria, capitalismo.

 

Prof. Vincenzo Capodiferro

 

 

 

  

 

Cristina Cipolla nasce a Luino, in Provincia di Varese nel 1967, consegue la maturità artistica presso il Liceo Artistico “Angelo Frattini” di Varese. Nel 1987 si iscrive alla Accademia di Belle Arti di Urbino, dove frequenta il corso di Scultura del Professor Raffaello Scianca, Tecniche Pittoriche del Professor Pierpaolo Calzolari, Fotografia del Professor Ken Damy, Anatomia del Professor Omar Galliani, Scultura del Professor Vito Bucciarelli. Partecipa alle mostre collettive in Accademia. Si diploma nel 1991, con una tesi sullo scultore Eliseo Mattiacci. Collabora all’allestimento di mostre, per musei e gallerie di Urbino, Brescia, Milano, per Ken Damy, museo di fotografia contemporanea. Lavora a Londra un anno, a Formentera sei mesi, dove decora alcuni locali pubblici. Si occupa di fotografia, di scultura in ottone, in rame e in gesso, strutture eteree che disegnano la loro ombra sulle superfici attigue, dilatandosi ulteriormente nello spazio: il concetto di Scultura fruibile anche dell’interno, un punto di vista che regala prospettive nuove nella visione del contesto e dell’ambiente circostante. Insegna Scultura, Discipline Plastiche e Laboratorio di Scenografia al Liceo Artistico Angelo Frattini di Varese.


Silvia Landoni 

Trittico        

 

Dicembre 2022 - Febbraio 2023

A cura di Vincenzo Capodiferro

 

 

“336 verde ossido di cromo” 23x146 cm, acrilico su tela, 2017. “476 Bruno di Marte” 39x146 cm, acrilico su tela, 2017.  “214 rosa” 29x146 cm, acrilico su tela, 2017.

 

È un’opera molto bella, un “trittico” appunto, composto da tre pannelli separati, che insieme costituiscono una composizione floreale: opera pittorica di notevoli dimensioni, ma anche opera di design, inseribile in un contesto architettonico, di arredo. Caratteri portanti dello stile che vi si riscontra sono: la struttura ornamentale, il ripristino del romanticismo, l’accostamento di elementi decorativi, spesso di matrice naturalistica. Il segmento floreale si avvicina molto ad un atteggiamento neo-liberty. I colori usati simboleggiano diversi atteggiamenti: il rosa la delicatezza, l’amore, l’ammirazione e la bellezza; il verde la natura, il bianco la purezza, il blu il divino, lo scuro che contorna rappresenta il foscoliano ‘nulla eterno’, l’infinito, di fronte al quale l’uomo neo-romantico, come il vecchio romantico, si perde, come quel friedrichiano “Viandante sul mare di nebbia”, smarrito tra sehnsucht, ironia e titanismo. Questa è arte modernista. Il sogno di Silvia, d'altronde, come quello di tanti artisti, è quello del Terzo Paradiso di Pistoletto: sintesi di natura ed arte, di progresso e natura. Non v’è più l’hegeliana frattura tra natura e storia, che apre la via a quella tra scienze della natura e scienze dello spirito. L’evoluzionismo, però, ripreso in senso spiritualistico anche dal Bergson, pareva liberare la Natura Madre da questo preconcetto. E questo “trittico” ci pare riportare l’assioma spinoziano Deus sive Natura. Un’intensa aria di panismo si respira in questo maestoso trittico che celebra, come se fosse risposto in un altare, una Natura incontaminata, attraente, speciosa. Influiscono naturalmente su questo “dolce stil novo” elementi ancestrali di sogni mancati, come quelli illuministici del ritorno allo stato di natura, di uno stile di vita sano, che oggi culmina nel vegetarianismo. Vedendo l’opera di Silvia ci sovvien D’Annunzio:

E immersi 

noi siam nello spirito

silvestre,

d’arborea vita viventi.

E Schelling: La Natura è lo Spirito visibile, lo Spirito la Natura invisibile.

La magica Natura riappare in queste note colorate e nell’originalità ed unicità che caratterizza ogni opera d’arte in quanto tale,

rendendola in qualche modo atemporale ed a-spaziale, pertanto eterna.  

Prof. Vincenzo Capodiferro

 

 

 

 

Silvia Landoni nasce a Luino, in Provincia di Varese nel 1968. Nel 1986 consegue la maturità presso il Liceo Artistico “Angelo Frattini” di Varese. Nel 1990 si diploma all’Accademia delle Belle Arti di Brera di Milano, con una tesi in Pittura sulla scuola del realismo di Saverio Terruso. Sempre negli anni Novanta comincia il percorso didattico. Intanto, in collaborazione con lo scultore Franco Puxeddu, favorisce la creazione di laboratori e di corsi di modellato in argilla e di scultura. Poi si dedica all’attività di restauro pittorico di numerosi dipinti e tele, che sono datate in un ampio arco di tempo, dal Seicento al Novecento. Ad esempio, insieme a Rossella Bernasconi, si dedica al restauro dell’Adorazione dei Magi di Ercole Procaccini, sita nella Basilica di San Vittore di Varese. Ha lavorato, nell’opera di restauro, anche presso lo studio di Arcangelo Ciaurro, nonché in quello di Leo Spaventa Filippi. Nella sua opera artistica, Silvia affina il senso del colore nelle sue impercettibili sfumature, in tocchi cromatici puntuali, senza trascurare la percezione dell’insieme armonioso, in modo da raggiungere composizioni di elevata cromaticità, che si armonizza con un estremo rigore formale. Il suo profondo interesse per l’arte figurativa traspare in diverse espressioni. Silvia da più di trent’anni, in qualità di docente di Discipline Pittoriche, trasmette questa sua passione, insegnando agli allievi del Liceo Artistico “Angelo Frattini” di Varese, dove ella stessa ha studiato. Ha svolto attività e laboratori di fotografia e di multimedialità. Realizza opere in terracotta, vasi-sculture in modellato, smalti di riduzione, ceramiche Raku. Il talento di Silvia si esprime in una continua ricerca e sperimentazione anche verso l’arte astratta. La sua poliedricità risolve in sé tutti gli elementi assimilati nella sua esperienza artistica.

 


Maria Clara Gatti

L'attesa

Ottobre - Novembre 2022

 

 

Raramente l’arte e la creatività seguono strade prevedibili; amano spesso riposare all’ombra della vita e lasciare che il quotidiano scorra indisturbato, si nutrono di sguardi, di parole, di riflessioni, di emozioni e poi, piano piano, si risvegliano, per plasmare la materia con le forme ed i colori. 

È sempre stata su due binari la vita di Maria Clara Gatti, da un lato gli studi scientifici, la scienza, la sete di capire, di scoprire, di conoscere e dall’altro la voglia di creare, di colorare, di toccare e di lasciare un’impronta. È come se sin dalla sua infanzia un filo rosso legato all’arte non l’avesse mai abbandonata. Sin da bambina il suo girovagare, il suo curiosare e il suo perdersi fra la natura hanno cercato in un foglio, nei colori o nella materia qualcosa da dire. Poi, quando la vita sembrava ormai andare in direzione opposta, un incontro sul lavoro con Oreste Quattrini  ha portato Maria Clara nel suo studio a imparare a scolpire.  Da lì a frequentare il serale del liceo artistico il passo fu breve. 

È quindi bello e significativo che la statua esposta in questa sede sia proprio L’Attesa: una donna in piedi con lo sguardo sospeso e il vento fra i capelli. Una scultura che, se da un lato evoca l’amore di Maria Clara per Arturo Martini, per Casorati, Campigli e il gruppo del Novecento, dall’altro traduce il suo pensiero ed il suo sentire con mezzi e toni ben precisi.  È la consistenza grossolana della creta refrattaria ad appassionare l’artista e sono i colori di ossidi di ferro e manganese a modulare delicatamente la luce e i suoi riflessi. I volumi, stilizzati ma decisi, acquistano forza e consistenza grazie ad una sinergia di pieni e vuoti in dialogo con lo spazio. Ma è soprattutto lo sguardo che colloca L’Attesa in una sfera spazio-temporale sospesa, quasi magica ed evocativa, mentre alle spalle il soffio del vento, simbolica presenza delle forze avverse della vita, le scompiglia i capelli, senza turbare la sua forza interiore, senza mai riuscire a spezzare quell’eterno filo rosso che magicamente lega l’artista all’opera e Maria Clara alla sua arte, al suo passato, al suo presente e al suo cammino verso il  futuro

 

Prof.ssa Donata Pacchetti

 

 

 


Ermanno Cristini

Tank

 

Maggio - Giugno 2022

a cura di Luca Scarabelli

 

 

Ermanno Cristini presenta Tank, opera del 1987, un suo lavoro storico che riflette sui rapporti tra materia, forma e immagine. Tank è parte di un ciclo di lavori realizzati in pongo, opere che interrogano la materia nel luogo della sua messa in crisi. Gli anni della caduta delle utopie e delle narrazioni. Presentati appunto nel 1987 in una mostra che titolava Ephemera, si proponevano di riflettere su quegli “eventi senza prestigio” propri di una contemporaneità che iniziava ad essere qualificata da un “ronzio” elettronico di cui più tardi si sarebbe avuta una piena espressione, ma anche dal “ronzio” dell’edonismo, della citazione e dei media che si vogliono nuovi. Ed ecco il moderno messo definitivamente alle spalle e l’arte come merce, l’arte come affabulazione e pastiche.  Il fascino del pongo e la sua “pelle” ha permesso a Cristini di sistemare il suo punto di vista sulle nuove sfide che la pittura, o meglio l’arte andava ad affrontare, nel senso della sua doppiezza: materiale voluttuoso e sensuale, il pongo come superficie, si fa “cosa” traspirando fisicità. Per di più molto colorata, quasi felice. Si ricorda che il pongo è stato la prima plastilina duttile a base di cera colorata e che ha appassionato generazioni di ragazzi… (poi è arrivato il Didò). Questo materiale è duttile, quindi mentre lo si plasma, valorizzandone la concretezza nella sua “messa in forma”, la sua consistenza muta, adeguandosi alla plasticità data dal calore della manipolazione che lo cambia e nel cambiare la forma plastica risulta perennemente in progress, forma precaria e inconsistente. Alla vista il colore di Tank è improbabile nella sua smaccata artificialità e al tatto non c’è mai un consolidamento definitivo. Ogni forma è provvisoria, ed ecco il tempo, lo zeitgest dell’epoca di MTV, di Ronald Reagan e della Margaret Thatcher, formalizzato. Può un oggetto raccontare tutto questo? Il pongo simula una consistenza e afferma uno stato in cui la materia, dichiarandosi come tale svela uno statuto di pura apparenza. Una perfetta metafora per Tank, che ha anticipato un tema reso centrale oggi entro la società della rete o delle reti e dei social: il rapporto tra essere e apparire, in una cultura in cui si è solo se si appare e dove il vero si identifica con il verosimile. Dietro la maschera c’è del pongo colorato.

 

 

Ermanno Cristini (Varese, 1951), si occupa del rapporto tra realtà e finzione fondando il suo lavoro artistico sull’indagine delle trasformazioni che lo statuto dell’opera d’arte subisce in ragione delle modalità delle sua circolazione. Numerose le iniziative che lo hanno visto come curatore e ideatore di mostre in cui la a dimensione relazionale è base di attuazione dei progetti, tra cui Roaming, L’ospite e l’intruso, Dialogos, Camminare l’orizzonte e altre iniziative e dell’importante spazio espositivo di ricerca indipendente RISS(E). Il suo lavoro artistico come dichiara “è un inciampare derivato dal fare. Per un momento, a occhi chiusi, inciampo in una cosa vista da sempre ma che, da quel momento, conosco in una forma diversa. Poi ci penso su. A quel punto scatta l’elaborazione teorica che probabilmente mi porta a inciampare di nuovo andando così in altre direzioni”. Un rotolare continuo tra pensare e fare… Per molti anni è stato docente di materie d’indirizzo e figura di riferimento per l’arte contemporanea al Liceo Artistico Frattini.

 


Claudia Canavesi

Comunicare nello spazio e nel tempo

 

Aprile - Maggio 2022

a cura di Luca Scarabelli

 

 

Il tempo lo percepiamo attraverso lo spazio nel momento in cui ci muoviamo da qui a là, il tempo scorre con noi, noi scorriamo nel tempo. L’immagine ci permette di “vedere” il tempo, di coglierne l’attimo o la durata, anche quando passa o meglio quando è già passato. Ci sono opere che tentano di cogliere, con la giustapposizione di elementi eterogenei, la successione degli attimi del tempo nello spazio. Quello che è lontano si avvicina. Comunicare nello spazio e nel tempo, l’opera del 2005 di Claudia Canavesi, predispone all’interno della forma primaria del cerchio, il problema strutturale del rapporto tra materiale, corpo, spazio e tempo. La sua scultura è attenta al passato della storia dell’uomo, alla storia dei suoi manufatti, richiama le dinamiche socioculturali dell’uomo antico, dell’uomo mitico. Penso a certe forme dal sapore primitivo, alla storicità del senso plastico, ai principi formali che arrivano dalle espansioni delle forme naturali, alle forze primordiali e animistiche, alle pietre antiche di Ur, alla scultura che si fa immagine archetipica, quasi mitologica, a forme e forze primigenie. Il cerchio di Comunicare nello spazio e nel tempo racchiude un interno, che è un vuoto, un centro, un nucleo che predispone nel suo limite fisico un possibile eco delle parole. Parole antiche e parole moderne. Apre la scultura alla dimensione dialettica degli opposti, al dialogo tra pieno e vuoto, tra materiali leggeri e pesanti, tra bianco e nero, tra dentro e fuori…

 “ Ma è il vuoto interno che fa l’essenza del vaso…”

La superficie d’appoggio (una grande lastra di ferro quadrata -altra dialettica del cerchio nel quadrato -incisa con morsura)  contribuisce al racconto “mitico” con l’eco di un’immagine di un ponte. Il particolare il primo ponte costruito con un’unica arcata in ferro. Il ponte rende possibile l’attraversamento di un vuoto, unisce due parti rende comunicabile nello spazio e nel tempo due opposti, i due lati di un fiume, di una valle. Il ponte riunisce la terra e disegna il cielo. La virtù del ponte, che affascina molto Claudia Canavesi, oltre che l’idea del collegamento è ancor di più l’idea della sua possibilità di far luogo, in quanto il ponte “non viene a porsi in un luogo che c’è già, ma il luogo si origina solo a partire da quel ponte”. E se pensiamo che nell’etimologia della parola spazio troviamo anche il senso del liberare un posto per renderlo libero per un insediamento… lo spazio si ordina e si compone, diventa luogo attraversato, località (Raum).

C’è un velato omaggio alle costruzioni ottocentesche in ferro, rivoluzionarie per l’architettura e per le nuove spinte costruttive. Costruire, abitare, pensare, modellare, è giocare sulla lievità del disegno, sul contrasto tra pieni e vuoti, sulle linee scure e nere del ferro sullo sfondo chiaro del cielo (le strutture in ferro hanno più spazi vuoti che pieni, sono grandi costruzioni che lo sguardo attraversa con leggerezza). Come dice l’artista a proposto della sua ricerca "Mi affascina la fluidità ed elasticità del ponte. La sua massa è così possente e pesante ma ha una forma fluida, perché questo elemento gigante deve relazionarsi armonicamente con l'acqua del fiume e i venti e i loro impatti diversi. Le forme delle arcate sono indicate dalla natura all’ingegnere… non è poesia questa?” 

Il ponte motivo di indagine è uno dei simboli dell'archeologia industriale internazionale. È il ponte San Michele, noto anche come ponte di Calusco, ponte di Paderno o ponte Röthlisberger. È un ponte ad arco in ferro, a traffico misto ferroviario e stradale, che collega i paesi di Paderno d'Adda e Calusco d'Adda attraversando una gola del fiume Adda. L’immagine del ponte è restituita dai segni ben giustapposti del disegno inciso su lastra. E tutto appare trasparente e luminoso. Sono tralicci, intrecci di sospensioni, linee e pesi dove la luce gioca con l’ombra. L’uomo crea ordine e misura intorno a sé, predispone ambienti e il suo fare ha sempre avuto una funzione mediatrice con il sistema dato della natura (anche se oggi in piena epoca dell’accelerazione probabilmente se ne è perso il controllo…). Interponendo tra sé e la natura, come mediatori, degli utensili o i vestiti… poi la parola e il linguaggio, ha creato un mondo, un luogo dove vivere e lavorare. In più con la capacità straordinaria di pensare in modo simbolico e da qui la capacità di comunicazione, l’uomo si proietta e quindi nell’arte, nella religione, nella tecnologia, nella scienza. Ecco, la civiltà e la cultura. Questo lavoro, nella sua circolarità e nei suoi segni, racconta di tutto questo, con le tracce arcaiche e moderne in rapporto dialettico, con segni che diventano linguaggio, parte del nostro sistema simbolico che ci permette di vivere in relazione comunicando. L’uomo cominciò a “scrivere” su delle piccole “sculture”. Attorno al 3000 a.C. i Sumeri crearono le prime città e sulla creta i primi caratteri che “significavano”, che “parlavano”. Erano segni cuneiformi, realizzati con incisioni, decise impressioni sulla materia realizzate con uno stilo di canna. Creta e canna. La cultura della plasticità. Materie seminali.

Sopra la lastra incisa troviamo adagiate una serie di pietre di Vicenza (bianca e gialla) e semplici forme in argilla cruda patinata, tutte caratterizzate da decisi segni di modellatura, lavoro, manipolazione. E quindi su queste forme un alfabeto, realizzato con segni tratti da svariate culture contemporanee e lettere cuneiformi. Segni che sono simboli della comunicazione, quindi lettere, dispositivi legati alla necessità del dialogo e del trasferimento del sapere e quindi della condivisione. Una parola. La scultura come pratica sociale: Canavesi ci dice che i segni che ha inciso sulle forme sono in diverse lingue e che per la scrittura di questa parola, ripetuta (che in questo testo non rivelo) hanno contribuito con la loro lingua madre molte persone, sue conoscenze e amici che si sono messi in comune, in comunicazione, intrecciando per questo lavoro lingue come lo svedese, l’arabo, il cinese, il giapponese, il greco, il punjabi, il serbo… per predisporre una babele (da svelare) a partire dal proprio vissuto e aprire così le porte all’interpretazione. 

Dove si trova oggi la forma della scultura? Quello che è vicino si allontana e costruire “ponti” con il linguaggio e le forme è unire le distanze. La scultura, la pratica principe e prediletta dall’artista, è costantemente un gioco plastico in cui la tattilità e la vista muovono la materia. Claudia Canavesi pratica questo mestiere come un continuo laboratorio e studio della possibilità comunicativa delle forme.

 

Luca Scarabelli

 

 

 


Enzo Capozza/Maria Rita Fedeli - Francesco Attanasio

 

Marzo 2022

a cura di Franco Carenzo

 

 

Una mostra condivisa. Nel quadro metafisico "Metamorfosi Uno" l'opera di Francesco Attanasio, il primo elemento da osservare è il tralcio sinuoso di una pianta che rappresenta l'elemento vitale della Natura come Madre che tende e conduce all'elemento divino. Il volto della persona, che potremmo definire "antropo-meccanico" simboleggia la possibilità concreta dell'uomo di modificare/integrare una o più parti del proprio corpo " fragile". L'emi-aureola sta a significare che l'uomo possiede in sè una scintilla divina che lo porta a desiderare, nei casi più virtuosi, di partecipare dell'essenza di Dio, rappresentata dal triangolo giallo, in una comunione di intenti e creatività e nei casi più dispotici, di sostituirsi a Dio in un delirio eugenetico. Il quadrante esterno destro, occupato da una campitura gialla che rimanda alla luce del sole, è in contrasto con gli altri colori e rappresenta la visione ottimistica dell'autore.

Codice” è una scultura composta da 19 elementi in legno sagomato, uniti tra di loro da due corde di canapa intrecciata. La struttura rappresenta simbolicamente una sequenza di DNA. Nell’immaginario collettivo la doppia elica del DNA è diventata un'icona, un simbolo potentissimo della biologia e di tutta la scienza.

La struttura del DNA, porta con sé una immagine positiva, ci ricorda l’origine della vita, la sua forma racchiude la conoscenza ed è pregna di significati etici e sociali.

Codice” è installata tra due pareti e sospesa nello spazio come un ponte, collega quindi idealmente e fisicamente due punti nello spazio, come una corrente energetica che unisce due poli opposti. Gli elementi in legno, i “nucleotidi del DNA”, si trasformano in simboli astratti, archetipi dell’essere umano, rimandi a forme primarie e ancestrali.

La scultura, con i suoi giochi cromatici e le diverse forme, vuole anche essere un inno alla diversità, che è ingrediente fondamentale per la bellezza, ma che può essere apprezzata solo riconoscendone l’uguaglianza alla base.

 

 

Francesco Attanasio nasce a Vico Equense (Napoli) nel 1947. 

La collaborazione artistica di Enzo Capozza e Maria Rita Fedeli ha inizio nel 1993, da allora hanno condiviso gli studi e l’attività artistica. 

 

 


Silvia Bottazzini

Borgo antico

 

Gennaio-Febbraio 2022

a cura di Luca Scarabelli

 

 

 

Il lungo poemetto  - pubblicato nel 1964 - di Pier Paolo Pasolini Poesia in forma di rosa si presenta come un romanzo autobiografico in versi, come un diario che diceva Pasolini  “racconta punto per punto i progressi del mio pensiero e del mio umore”. Silvia Bottazzini parte da questa suggestione poetica e dalla sua attenta lettura per predisporre l’opera “Borgo antico”, giusto qualche anno dopo. L’opera è del 2015, la sua ricerca esplora da qualche anno le possibilità del segno di essere ricettacolo di sensibilità e proiezione di un’espressività improntata al recupero della memoria, del senso del quotidiano e delle stratificazioni del tempo. E questo attingendo idealmente all’antico, all’arte, al mito, alla poesia e alle dinamiche personali che si accumulano nel proprio fare, nel proprio vivere. Tempi e spazi si intrecciano, passato e attualità collidono, commozione e silenzio si sfiorano, armonia e disordine si scontrano. Scrive Pasolini “…e, per questo, restare sulla vita a contemplarla, come un rottame, uno stupendo possesso che non ci appartiene”. Pasolini dice che la poesia è un mezzo per nominare le cose, un mezzo che non può mostrare le cose nella loro realtà. La coincidenza tra il nome e la cosa è artificiale e culturale (anche Magritte ha lavorato molto in questa direzione indagando la fallacia del linguaggio). Com’è una rosa in forma di poesia? Silvia nella sua opera dialoga con questo pensiero, ne fa la sua passione, l’argomento con cui confrontarsi per inventare e montare il suo mondo poetico, la sua rosa. Con “Borgo antico” e con il lavoro “gemello” sempre dello stesso anno, un polittico di cinque parti “L’ora in cui il cielo si tinge d’arancione”, compone un montaggio di situazioni, scrive una narrazione per frammenti in cui il senso della memoria è centrale. Memoria riferita al fare e ad una processualità in cui il rapporto con una materia industriale trovata si fa ricca di riferimenti poetici e pittorici. L’opera - era stata esposta in una mostra presso la Bibliothèque Tréfilerie dell’Université di Saint-Étienne nello stesso anno - è composta di scaffali metallici industriali presentati in serie, un polittico di quattro parti, collegati da un motivo astratto fatto di segni “antichi”, poi disegnato e costruito. Silvia Bottazzini ha disegnato sulla superficie una “storia” e quindi disposto l’opera nello spazio, difatti il lavoro non è appeso al muro, ma collocato a terra, in posizione verticale, come un vero e proprio schermo, una pittura che si fa scultura, installazione, scenografia. L’intervento dell’artista è attuato con una procedura tecnica fatta di morsure, strofinamenti, graffi, abrasioni per diminuire o aumentarne la ruvidità della superficie. Disegna così un “paesaggio urbano”, un piccolo “territorio” in cui si riconoscono un arco e una finestra (tra l’altro un territorio-ambiente che idealmente è quello fuori dalla “finestra” di casa, il luogo dell’isola del tempo ricca di pitture importanti che è Castiglione Olona, il borgo antico con la collegiata che ospita l’opera pittorica di Masolino da Panicale e la storia del Cardinale Branda Castiglioni). 

Il materiale scelto per questo lavoro è quello di scarto, un rifiuto (lo scarto come reperto e materiale sedimentato è molto affascinante per chi ha la sensibilità di saperlo sfruttare in funzione artistica) che porta con sé una sua storia, in questo caso le macchie del tempo, i segni dell’uso quotidiano, quindi il tempo che è passato. L’intervento parte da queste suggestioni e da queste tracce, le rimodella, le re-inventa. A tratti si tratta anche di riscrivere le tracce sedimentate, oppure di ritrovare quelle leggerissime quasi perdute e accompagnarle a segni nuovi. È come evocare il corpo delle cose, come in altri lavori che Silvia ha realizzato in passato, in cui il disegno costruiva il corpo umano come struttura o ancora come nei lavori con soggetti come gli ambienti di interni, spazi abitati come il suo studio, in cui il gioco di linee e luci facevano emergere e immaginare silenzi e momenti di sospensione. In questo lavoro si ritrovano continuamente macule come tracce.  Nelle macchie si leggono delle cose, si tratta di un fenomeno istintuale, la pareidolia, la possibilità di intravedere delle forme riconoscibili, oggetti, nelle strutture amorfe che incontriamo, ad esempio nelle nuvole o nelle macchie sui muri (i disegni ambigui in psicologia sono famosi con il test di Rorschach). A questa illusione pareidolitica, che possiamo tradurre come immagine a noi vicina… con il sembiante che appare, Silvia aggiunge del suo. Così ci si muove all’interno di un’immagine costruita sulla lamiera, guidati dal cromatismo e dalla luminosità che è sempre vibrante e cangiante a seconda dell’incidenza della luce. 

La macchia (…disegnare è un definire le forme, fare macchie suggerirle) appare prodotta da un evento fortuito, origina dal caos, ma l’artista se ne fa modellatore, come se toccasse l’inconscio della materia per rivelarlo, trasformandolo in emozioni e in sensazioni. È una materia ideale, una materia originaria. Ecco è qui che si ritrova anche il senso della memoria, nel momento in cui materia, colore e segno interagiscono, un po’ in modo guidato e un po’ con il fai da te del tempo, un lavoro fatto ad esempio per via delle proprietà ossidative dal materiale stesso con l’incidenza dell’uso utilitaristico del passato. Sfruttando quindi la macchia, Silvia Bottazzini attua un processo di configurazione che si apre anche al simbolico, che l’artista riesce a collegare con gli stati d’animo. Nelle forme intrinseche dei pannelli c’è un richiamo velato alle prove dell’informale da una parte, anche alla tecnica del grattage e del frottage di Max Ernst, ma senza l’appiglio del surreale, ed infine alla forza delle superfici industriali di Jannis Kounellis, “schermi” che indagano attraverso piani più o meno istoriati di materiali - elementi che molte volte diventano anche grandi installazioni - la presenza dell’uomo, la sua cultura e il rapporto con la storia, in particolare con il mito. Da rimarcare anche che il risultato finale ha un che di semplice e raffinata conformazione, e nonostante il “terremoto” sulla superficie, quasi un’epidermide tutta movimento, l’insieme appare leggero, minimale ed estatico. Le strutture disegnate sono come organismi pittorici messi in relazione tra loro e con la storia precedente, per verificare la possibilità dei segni di determinare la forma, predisponendo coscientemente un dialogo tra la regolarità e la casualità, tra il ritmo e l’artisticità, tra il vicino e il lontano, tra la dilatazione e la contrazione, e ancora tra astrazione e figurazione, un dialogo degli opposti positivo che accoglie lo sguardo e il pensiero; così il tutto è tensione, cadenza, ritmo, abbandono… fino all’effetto e alla forma desiderati. Silvia è l’agente, agisce sulle cose, adopera le cose in quanto ne è l’artefice, e lascia la sua “poiesis” nelle tracce.

 

 

 


Constantin Migliorini

Il muro di carne

 

Novembre-Dicembre 2021

a cura di Luca Scarabelli

 

“… noi siamo carne, siamo potenziali carcasse. 

Ogni volta che mi reco dal macellaio 

mi stupisco di non essere lì io al posto dell’animale“ 

Francis Bacon

 

 

“Il muro di carne” (opera del 2012) è pensato come ad un dialogo tra la memoria personale e la storia dell’arte. Si affacciano in questo caso le opere del “genere” che hanno scritto la storia della pittura come quelle di Carracci “La vita di bottega di un macellaio” del 1585 o di Rembrandt con il suo “Bue macellato” del 1655 che sembra alludere all’iconografia cristiana per come è appeso o il Goya del 1812 o l’opera di Chaïm Soutine “bue squartato” del 1925. Ancora si ricorda l’opera di Francis Bacon “Figura con carne” del 1954. Il nostro Renato Guttuso della “Vucciria” del 1974, oppure per uscire dal seminato pittorico, l’opera di Jannis Kounellis del 1989 presentata a Barcellona, una lunga parete di ferro con una fila di pezzi di carne vera, quarti di bue al posto del colore, e di Damien Hirst anche, in particolare penso alla testa collocata a terra in “A Thousand Years” del 1990, e ancora Jenny Saville… Lucian Freud. La carne macellata la possiamo trovare anche nella filmografia di Jodorowky, nella “montagna sacra” incontriamo questa immagine… o nel truculento performer viennese Hermann Nitsch con le sue rappresentazioni del “Das Orgien Mysterien Theater”, opera d'arte totale che dal 1971 ha sede nel suo castello di Prinzerdorf in Austria: Nitsch nel suo manifesto dichiara che le sue azioni devono suscitare nello spettatore disgusto e ribrezzo per innescare una contro-reazione di catarsi e purificazione. 

Gli esempi e i rimandi ci sono. Carni messe in bella (brutta) vista con la pittura? C’è una differenza. Il nostro autore, Constantin Migliorini, affronta il tema con un piglio e un fare tutto postmoderno. Il nostro immaginario di telespettatori o frequentatori di cinema o di serie (non ne possiamo più fare a meno), ci porta alla mente, ad esempio, anche per un confronto tra cultura alta e bassa, uno ormai storico Rocky alle prese con un quarto di carne che usa come sacco (cosa c’è di più postmoderno e kitsch di questo…), “sacco” che colpisce con bordate di pugni ben piazzati, lordandosi di sangue le mani per mettersi in bella mostra, e in forma, in occasione di una ripresa televisiva promozionale, poco prima del suo incontro di boxe con il campione del mondo dei pesi massimi. Ecco, lo stallone italiano è metafora di questo aspetto che interessa molto Constantin. La sua “carne” è quella del passaggio dalla vita alla morte, dal pascolo al supermercato (altri suoi lavori del genere, hanno l’aggiunta sempre dipinta, dell’etichetta del supermercato con relativo peso, costo, data di produzione e scadenza, ecc… in un trompe d’oeil molto ispirato, ha mescolato pittura e oggetti veri - le vaschette di polistirolo delle confezioni da banco - e ne ha presentati una serie in un lavoro intitolato  “Carni - paghi 2 prendi 3” del 2007), racconta “sottovuoto” il suo incontro (vero) con questo regno di morte, che per Constantin è stato effettivamente vissuto dal vero in una grande cella frigorifera ai tempi degli studi accademici. Nell’occasione aveva  realizzato una serie di fotografie da usare poi come base di partenza per le opere, foto di celle in cui erano appese decine di carcasse di animali macellati. Sono parole forti: carcasse, macello, squartare, fatto a pezzi, morte… ma è quello che è, è la parte nascosta del nostro quotidiano e anche di una parte della nostra tavola. Diretto, ma è così. La pittura può far fronte a tutto questo e raccontarlo come le sue peculiarità? Lo hanno fatto in passato quando il rapporto con l’animale e la sua fine era più ”naturale” (vedi gli artisti che ho su citato e altri), e lo fa con questo lavoro Migliorini, che traduce la carne in un muro di colore pastoso (alla Soutine direi… i dipinti di Soutine sono dolore puro. Siamo nel 1925 a Parigi; Soutine si porta nel suo studio-abitazione come “modello” un animale sventrato preso al mattatoio, e ci lavora per giorni, fino a quando la gendarmeria chiamata dai vicini interviene a sequestragli il tutto per via dei cattivissimi odori. Soutine in effetti non aveva filtri “sociali” ed era mezzo matto si dice…) intessendo la materia pittorica anche con del materiale, dei fili di corda aggiunti alla pittura, che si innervano sulla superficie come segni direzionali che vanno ad irrobustire i tracciati e le linee di forza della composizione, indizi visivi di forze espressive. Migliorini  ha lavorato con delle fotografie come punto di partenza della sua indagine pittorica e ha quindi dipinto tranquillo nel suo studio (gli agenti non sono intervenuti). Lo sguardo però non era tranquillo, difatti scorre sulla superficie del colore senza appiglio, ci fa sentire attraverso i segni, la potenza dell’immagine, che è quasi vera, febbrile, che tutto è molto primitivo, e che il colore è qui una forza espressiva potente, espansiva, tanto che a tratti la traccia iconica sembra sparire e farsi astrazione. Il risultato finale è lì a ricordarci il senso della morte e dell’esistenza. La carne occupa tutto lo spazio della composizione, è protagonista assoluta, a parte lo spiraglio in un angolo del pavimento lucido che la dispone in prospettiva e la fa sentire presente e vera. Il fascino macabro di una carcassa fatta di rossi, rosati, bianchi accesi, colori a tratti sporchi di umido malessere, che da vicino diventano informe magma sanguigno, colori che parlano di pittura totale, di pittura materia. La fotografia è un medium che filtra e abbassa in parte la tensione visiva della materia, ma Migliorini la riscrive appunto rendendola tattile, presente. Una scena oscena? C’è poco da stare allegri, dal punto di vista dell’animale è sempre un dramma… ma la vita purtroppo è anche questo, e la pittura, la buona pittura riesce a farcelo sentire. Cercatevi  “Meat” del 1962 di Roy Lichtenstein, artista pop, e fate un paragone: la carne, il macello, il supermercato, la piattezza della pittura pop; il senso di tutto quello scritto sopra è raffreddato dal passaggio dei media, dal simbolo, dal racconto, dalla merce e dal consumo. Carne pop senza catarsi. È volutamente la sintesi dell’immagine piatta della carne presentata nel volantino promozionale dell’esselunga. E non è la carne di Constantin.

 

 

 


Giancarlo Sangregorio

7+1

 

Febbraio-Marzo 2020

a cura di Elena Ceci e Claudia Canavesi

 

In occasione del suo cinquantesimo anno di esistenza, Liceo Artistico Frattini è lieto di ospitare una mostra dello scultore Giancarlo Sangregorio presso lo spazio Clip. Sette sculture di piccole dimensioni, popolano lo spazio di Clip restituendo la cifra stilistica dell'autore: da una materia cristallizzata in forme compatte in cui si svela il gioco dell'incastro e della complementarietà ad una solidità più fluida e articolata, aperta al dialogo con lo spazio. 

Nella biblioteca dell'istituto completa il percorso un libro d'artista. Qui la pasta bianca di cellulosa diventa il luogo in cui la materia, imprimendosi, lascia la sua traccia. Sono le impronte, altro capitolo della produzione variegata dell'artista. La forza indiscussa dei materiali scultorei presenti in Clip si confrontano con la plasticità che anche un materiale “fragile” come la carta riesce a raggiungere; dando la possibilità ai fruitori di approfondire le diverse sfaccettature dell’opera di Giancarlo Sangregorio. Polimatericità e multiplo diventano i temi di questa mostra che scavalcano una modalità storica di esposizione dalla scultura per rientrare in quello che è il linguaggio contemporaneo dell’installazione.

 

Giancarlo Sangregorio nasce a Milano nel 1925. Comincia da autodidatta a scolpire opere in pietra, affascinato dalla materia delle cave dell’Ossola, dove trascorre lunghi periodi. Terminati gli studi classici, frequenta i corsi di scultura all’Accademia di Brera a Milano, sotto la guida di Marino Marini. Esordisce nel 1949 partecipando alla grande mostra di scultura Premio Internazionale Città di Varese allestito a Villa Mirabello. È del 1952 la sua prima personale a Milano. Da allora è presente alle più significative manifestazioni d’arte internazionali. Tutta la sua produzione non segue una logica consequenzialità, ma ha in sé il senso dell’andare oltre. L’artista, secondo Sangregorio, deve restare al di fuori del processo che si sviluppa, lo rende possibile, ma non lo determina. Tutti i lavori sfuggono alla definizione di scultura tradizionale e ne mettono in discussione l’idea e la possibilità stessa di esistere. Giancarlo Sangregorio ha vissuto e lavorato a Sesto Calende fino al 2013, nella casa-atelier oggi sede della Fondazione da lui voluta per sostenere e divulgare la sua opera.

 


Fabrizio Parachini

Codice ovvio n. 2: Tempo rubato, 2011/2016

stampa diretta UV su high board 10 mm, cinque elementi di cm 70 x 50 ciascuno

 

Maggio - Giugno 2019

a cura di Luca Scarabelli

 

 

Codice Ovvio, Tempo rubato n.2, di Fabrizio Parachini è un lavoro che riflette sui rapporti tra testo e messaggio, sulla comunicazione e sulla presenza dei codici e di conseguenza sulla codifica e sulle regole. 

Da sempre interessato alla funzione analitica dell’arte e ai sui sviluppi linguistici, in Codice Ovvio (un riferimento a testi di Umberto Eco e di Bruno Munari) la traduzione di Parachini è costituita da immagini fotografiche “rubate” dal web riguardanti specifici oggetti (in questo caso orologi), intercalate a minime figure geometriche che rimandano alla sua ricerca pittorica. Predispone così una dialettica tra raffigurazione e monocromia, riduzione e moltiplicazione, riconoscibilità e perdita di dati, tempo e stasi; quindi diversi livelli di lettura di un discorso e una comunicazione di senso aperta a sviluppi e potenzialità.  

 

 

 


Alessandro Traina

Conseguenza/7

 

Maggio - Giugno 2018

a cura di Luca Scarabelli

 

Contorno, tattilità, ombra, vuoto, percezione del tempo, astrazione, sono i modi, gli interessi e le dinamiche operative di Alessandro Traina. Il tempo indagato è quello dell’istante, intrecciato all’attenzione per le strutture ortogonali e la geometria; una temporalità che si articola con lo spazio, che è ravvivato continuamente dalle varianti strutturali e modulari sempre in confronto serrato con la parete, e dal dialogo con la percezione, messa alla prova dalle trame inaspettate dell’opera. L’opera ferma il tempo. La condizione è quella di una scultura che si fa schiacciata e di una pittura che si distacca dalla parete, che diventa forma, quasi pilastro della percezione. Il colore - anche questo lento e atonale, quasi da paesaggio invernale - è il momento dell’unione di questa dialettica delle forme. 

Tela e ferro sono uniti in un racconto plastico intitolato “Conseguenza/7” del 2011, è composto da sette elementi e fa parte della serie “Consequenze” che si è conclusa nel 2016. Sono composizioni di più singoli elementi geometrici, forme aperte, che una volta combinate, creano griglie da guardare frontalmente. Segmenti apparentemente collocati in modo casuale, vengono giustapposti in un ordine predefinito e permettono di passare da una forma aperta ad una struttura chiusa, equilibrata, empirica, che da luogo ad un disegno specifico che non è altro che una serie di rettangoli o quadrati. La parete diventa una superficie modulata, quasi la formalizzazione di una riflessione matematica, un materiale sensibile che si irradia nello spazio che non è più vuoto. 

 

 

 

Alessandro Traina

San Vincenzo (LI) nel 1957. Vive a Milano.

Nel 1987 tiene a Milano la sua prima personale. Nel 1989 è invitato al Premio Saatchi & Saatchi al Palazzo delle Stelline a Milano. Ha esposto al Palazzo della Triennale a Milano, a San Pietro in Atrio a Como, al Castello di Sartirana nella rassegna “Giovane Arte Contemporanea” e alla Galleria Civica di Gallarate, ad “Arie”, rassegna di scultura internazionale all’aperto nell’ambito del Festival dei Due Mondi di Spoleto. È presente al Castello di Rivara nella rassegna “Equinozio d’Autunno”, al Museo Sant’Agostino di Genova, all’Auditorium San Fedele di Palazzolo e al Chiostro S.Agostino di Pietrasanta. Museo Civico di Albisola, Collegio Cairoli di Pavia, Chiostro di Voltorre e Museo Floriano Bodini di Gemonio (VA). Tiene personali a Milano, Varese, Como, Bergamo, e seguono anche esposizioni nel Museo di Palazzo Poggi dell’Università di Bologna, nel Museo Civico Parisi Valle di Maccagno, nello Spazio Cesare da Sesto a Sesto Calende e nella Galleria di Arte Moderna di Udine. Nel 2012 è invitato dalla Fondazione Zappettini di Chiavari a partecipare alla rassegna “Astratta”. Nel 2016 è invitato al Premio Michetti di Francavilla al Mare ed è presente alla grande rassegna della Bocconi Art Gallery di Milano e al Premio Suzzara (MN).


Egidio Bonfante

opere inedite

Aprile 2018

a cura di Gabriele Scazzosi, Federica Bellorini, Alberto Bertoni

 

Egidio Bonfante, importante designer, collaboratore della Olivetti di Ivrea, non abbandonò mai le sue due più importanti priorità di ricerca e di analisi anche quando si trasformò in pittura figurativa o astratta: il colore e la luce.    

Partendo da matrici post impressioniste e fauves, colore e luce costruiscono la forma, a volte potentemente, a volte delicatamente, come nelle opere esposte in questa piccola mostra, che fanno riferimento ad una tematiche a lui care, in una l'attenzione a Venezia ad esempio, in altri due osserviamo  un Bonfante tracciare quasi con delle pennellate da grafico una veduta di rovine del Foro romano, costruite sempre con la delicatezza degli abbinamenti cromatici, caratteristiche comuni anche all’incisione con l'opera "Vaso di fiori".

Curioso il soggetto di altri due dipinti, risalenti al 1945, raffiguranti  marionette, probabilmente legate al tema del teatro dei pupi, un soggetto che Egidio Bonfante ripropone come decorazione di una delle sale del Dormitorio della Colonia di Marina di Massa nel 1953, su commissione della Olivetti. A completamento della mostra qualche piccola testimonianza grafica: alcune copertine realizzate per riviste edite dalla Olivetti ed un video degli anni ’70 con sequenze fotografiche di sapore psichedelico: uno spot che testimonia l’attività di Bonfante anche nel cinema d’impresa.


Antonia Campi

Tra design d'arredo e creatività 1950-1970

Aprile - Maggio 2017

 

Antonia Campi, designer di altissima levatura che ebbe modo di operare per la SCI di Laveno, nella quale saranno esposti oggetti di arredo bagno progettati tra il 1950 e il 1970. La loro linea profondamente elegante  e originale,  tende a tracciare una storia sintetica  del design in questo settore e a dimostrare il perfetto connubio tra creatività e aspetto sociale-economico-industriale. 


Capozza - Fedeli

C.O.S.M.O

Dicembre 2010

 

Il titolo 'C.O.S.M.O 'rimanda ad ancestrali e originarie radici naturali. Il duo (Enzo Capozza e Maria Rita Fedeli) ha sviluppato una particolare ricerca armonica tra Arte plastica e Ambiente naturalistico. Nella loro ricerca privilegiano i materiali naturali, ma recentemente anche materiali riciclati.

Maria Rita Fedeli descrive l’operapresentata come una "installazione  realizzata con bottiglie di plastica vuote,, assemblate tra loro, per creare dei moduli; questi formano una struttura. Ogni bottiglia è  riempita di terra in cui viene piantata una piantina. L'intera installazione è illuminata con lampade e dotata di pompe che irrigano le piantine così da rendere il meccanismo autonomo. Inoltre la crescita delle singole piante è completamente libera. Dove cresce e a secondo della direzione in cui si dirige una nuova foglia, lì cresce la nostra opera". 

 


Gabriele Jardini

Buchi nella neve

Aprile 2009

a cura di Luca Scarabelli

 

Per presentare “Buchi nella neve” l’opera che Gabriele Jardini espone nello spazio di Clip, non si può che partire dalle sue stesse parole che raccontano il processo del suo lavoro e la pratica “tribale” attuata per la realizzazione di questa scultura/fotografia (“Tra due tronchi di Betulla pendula ho costruito un muro di neve che il gelo della notte ha indurito. La mattina seguente, per la foratura della parete ghiacciata, sono andato alla ricerca di grossi rami secchi di varie dimensioni che ho appuntito e scaldato gli apici sul fuoco”).

La scultura originale, realizzata con materiali deperibili sulle prealpi svizzere nel Dicembre del 2000, è presentata qui come immagine fotografica, medium che Gabriele Jardini predilige e sceglie per tradurre e proiettare nel futuro le sue effimere e deperibili installazioni. Jardini è un artista che s’immerge nella natura con lo sguardo indagatore dello scienziato e quello immaginifico del poeta. La sua docile erranza gli permette di considerare il territorio come una palestra per la fantasia e l’immaginazione, e di intervenire nei luoghi della natura organizzando in una dialettica quasi osmotica, spazi, forme e colori. E questo, pensando anche alla storia dell’arte contemporanea, con cui relazionarsi discretamente, come in questo caso, Buchi nella neve, dove ritroviamo un sotteso omaggio ai buchi di Lucio Fontana rimodellati poeticamente sul mondo reale. In fondo è un artista che sa cogliere le piccole cose: lascia scorrere, lavora sul tempo, si adatta, seleziona, riporta, pratica l’attesa e poi, porta la natura dentro ad una stanza. 

 

 

Gabriele Jardini nasce a Gerenzano (Va) nel 1956, dove vive e lavora.

La sua attività artistica inizia nel 1981 e dal 1985 lavora direttamente nell’ambiente naturale interagendo con il luogo ed i suoi materiali. Nel 1994 e nel 2004 è invitato a partecipare ad arte Sella, la prestigiosa Internazionale di Arte nella Natura in provincia di Trento curata da Vittorio Fagone. Ha presentato personali al Museo di Scienze naturali di Trento, alla Galleria Cavellini Cilena di Milano, al Museo Ken Damy di Brescia, da Photology a Milano, Artlife a Venezia. Ha esposto alla Mole Antonelliana di Torino, nei musei di scienze naturali di Vienna e Berlino, all’Accademia Carrara di Bergamo, al Museo Pagani di Castellanza. Nel 2007 è stato prodotto il portfolio “Ecosculture 1992-2007”: una raccolta di sue immagini per  le edizioni del Museo Ken Damy.


Giorgio Vicentini

Prima colazione per due

Marzo 2009

a cura di Luca Scarabelli

 

Ci piace pensarlo come ad un deciso protagonista della linea aniconica della pittura. 

L’opera che propone nello spazio di Clip, Prima colazione per due, è stata realizzata appositamente: è composta da due piani distinti che si legano visivamente, uno verticale-pittorico e uno orizzontale-oggettuale, posti in un dialogo che contempla l’idea della relazione e della coppia.

La pittura qui, va ad abitare lo spazio come un’onda che risponde al richiamo della gravità. Vibrante, mossa da continue suggestioni cromatiche, la sua “pittura” è quanto di più quotidiano un pittore possa proporre. Una pittura che scorre e scivola. E il quotidiano ci appare qui come una tavola imbandita, un invito a colazione, un invito a praticare lo spazio del colore, perché il nostro artista sa che il colore appartiene al soggetto che percepisce, più che all’oggetto percepito. Il suo spazio è quello della materia come sensibilità cromatica, che investe la realtà e la contamina.  “Prima colazione per due”  è un invito alla creazione, alla manipolazione della pittura. Giorgio Vicentini attraverso il colore ci porta in una dimensione altra, sospesa tra natura e cultura, in cui, come lui stesso dichiara “Il silenzio del bianco di zinco domina la scena”.

 

Giorgio Vicentini nasce a Varese nel 1951. Nel 1974, anno della sua prima mostra personale, lascia gli studi di giurisprudenza per dedicarsi interamente all'attività artistica. Dal 1982 Vicentini lavora esclusivamente a tema e per cicli.  Tra le ultime mostre ricordiamo il lavoro svolto con i bambini delle scuole di Castiglione Olona (Va), in cui Vicentini allestisce presso il Castello di Monteruzzo nel  2006 la mostra Rare Scintille. Nel 2007 espone alla galleria varesina Duetart “Colore crudo”. Nel 2008 invitato da Cecilia De Carli espone l’opera “Il sogno dello studente dipinto “ un’installazione dedicata al tema alla formazione alla Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.